La storia si fa a Palazzo Doria d’Angri
09 Marzo 2016
Pare che il tonfo della sua caduta per le scale del palazzo Doria d’Angri fu sentito da tutti coloro che si trovarono a passare non solo per l’antistante Spirito Santo, ma anche per la vicina piazza Dante. E, insieme al tonfo, si udirono in modo assai distinto bestemmie e parolacce irripetibili. Lo sfortunato protagonista di questa vicenda è Giuseppe Mazzini. Siamo nel settembre 1860, Giuseppe Garibaldi è da qualche giorno a Napoli con il suo strano esercito, ed è celebrato da tutti come un eroe. Mazzini, che aveva su un piano ideale appoggiato l’impresa dei Mille, è anch’egli in città. In una delle sale dell’abitazione voluta da Marcantonio Doria quasi un secolo prima, i due hanno un franco quanto acceso confronto. Mazzini propone a Garibaldi di abbandonare i Savoia e di creare con lui una Repubblica del Meridione dalla quale avviare una “non monarchica” liberazione dell’Italia. Garibaldi, memore di ciò che era accaduto a Roma nel ’49, non solo si infuria per quella proposta, ma in un eccesso d’ira prende per il collo della camicia il malcapitato patriota e dopo averlo sollevato lo lancia di forza fuori dalla stanza, giù per i gradini dello scalone principale, facendolo ruzzolare più volte.
È difficile dire se le cose siano andate veramente così. Può darsi che questo episodio non sia mai avvenuto. Però rende bene l’idea di cosa fosse il periodo risorgimentale, grandi personaggi, caratteri forti, idee libertarie, ma anche contrasti insanabili, odi personali, rigide ideologie, subdoli raggiramenti, ingenue debolezze, screzi personali durati anni, bottiglie di vino, lunghe discussioni e cazzotti.
Sia chiaro, non è intenzione di chi scrive dare spazio a revisionismi storici di alcun tipo. Tra l’altro, senza documenti ufficiali e fonti affidabili e consultabili, ben poco si può (e in generale si dovrebbe…) revisionare. Eppure, se proprio si vuol trarre una considerazione da questo verosimile avvenimento, è necessario riflettere sul fatto che, per colpa, o per merito, di un’antipatia, magari momentanea, i destini di una nazione, e di un popolo, abbiano preso una piega anziché un’altra. Parliamo di quei famosi “se” che la storia si porta dietro, quei “se” che, a ben vedere, nascondono elementi casuali capaci di rendere imprevedibili gli esiti delle ’esperienze vissute dagli esseri umani (“Erlebnis”).
Sono stati tirati in ballo Garibaldi e Mazzini, ma si sarebbe potuto raccontare, senza modificare troppo il senso del ragionamento, di un John Kennedy alle prese con la crisi missilistica di Cuba o di un Annibale costretto agli svaghi nella fatal Capua.
Le cose, insomma, sarebbero potute andare in modo diverso e, forse, saremmo entrati in contatto con il mondo che oggi conosciamo solo leggendo una copia un po’ ammuffita di un “The Grasshopper Lies Heavy” qualsiasi. Un “Destino cieco” bello e buono dunque che, almeno, non mette in discussione la bellezza dei luoghi in cui si svolse il presunto aneddoto iniziale, ossia il palazzo Doria d’Angri.
L’occasione, a questo punto, è troppo ghiotta per non chiosare con una breve digressione architettonica. Questa mirabile costruzione, tra le più belle dell’intera Penisola, staglia la sua mole maestosa sulla centralissima napoletana via Toledo, spaccandola di fatto a metà.
Con uno stile tra il barocco (il salone degli specchi, per esempio) e il neoclassicismo (soprattutto la facciata), vanta natali di prim’ordine: la sua erezione nel “centro del centro” di Napoli, fu avviata da van Wittel padre e conclusa dal figlio Carlo, e vide la partecipazione, con piccoli interventi, di altre archistar del calibro di Ferdinando Fuga e Mario Gioffredo. Il tutto impreziosito da alcuni affreschi del talentuoso e goetheiano Fedele Fischetti, dalle canefore di Angelo Viva e da tre dipinti di Francesco Solimena.
A colpire tuttavia la curiosità del visitatore è il secondo dei due cortili interni che, di forma esagonale, si apre a cannocchiale sul cielo della città. Una sorta di panorama al contrario che sembra quasi voler suggerire riscritture e visioni capovolte. C’è poi quel balcone, quello del 7 settembre, da lì Garibaldi parlò sul serio, in uno di quei momenti nei quali “la storia non si ferma davvero davanti a un portone, la storia entra dentro le stanze, le brucia, la storia dà torto e dà ragione. La storia siamo noi, siamo noi che scriviamo le lettere, siamo noi che abbiamo tutto da vincere e tutto da perdere”.
Di Roberto Colonna