Monteverdi Pianocloud
28 Maggio 2019
Sabato 1 giugno (inizio alle 20,30), per i “Concerti di Primavera” promossi dell’Associazione Rachmaninov, la musica contemporanea entra al Duomo di Salerno (Sala San Tommaso): Girolamo De Simone e Tiziano Citro eseguiranno al pianoforte alcune loro composizioni, proponendo al pubblico salernitano brani in prima assoluta o rivisti per la speciale occasione.
Il programma ha rilievo perché i due compositori eseguiranno personalmente alcune opere significative. Girolamo De Simone eseguirà, con l’ausilio dell’elettronica, la Suite Monteverdi | Pianocloud, terminata pochi mesi fa su commissione del Teatro San Carlo di Napoli. Tra gli altri brani, inoltre, si avrà l’opportunità di ascoltare la Zazà Suite (2006), scritta sul tema dell’omonima celebre canzone napoletana. Di Tiziano Citro, che firma quale direttore asritstico la prestigiosa maniferstazione, si potranno ascoltare: Preludi (1994), Quisquilia (1996), Continuum (2000), Sensation (2000), Melodia (2001) Melanconia (2001), Rivisitando (2001).
Abbiamo intervistato Girolamo De Simone.
Ti chiamano il “Satie napoletano”…
Lusingato, ma sono solo Girolamo. Lavoro all’ombra di crepacci, spesso ‘letteralmente’, tra le vigne del Somma e i costoni lavici del Vesuvio.
“I nastri ritrovati”, il long player dedicato a Cilio è già un disco da collezione, e un caso editoriale. Ora, un cofanetto intitolato “L’incantesimo della soglia”, con quattro cd che raccolgono gli autori di uno dei momenti più importanti per lo sviluppo delle avanguardie musicali a Napoli a partire dagli anni Settanta ha ricevuto richieste di distribuzione dall’America e dal Giappone. La piccola etichetta “Konsequenz” vende all’estero (120 dischi in pochi giorni) Ma qui?
Qui, dispiace constatarlo, siamo al solito controcanto residuale. Siamo un paese nobile, ma esterofilo, quindi satellite. Pieno di creativi che innovano, ma incapaci d’orgoglio per le nostre terre. Sia nelle metropoli che nelle piccole piazze, piccoli orti anche editoriali, restiamo propensi a lasciarci colonizzare. E ben venga ogni meticciato, purché non si trasformi poi in una egemonia “rovesciata”. Infatti, molti imitano e copiano, purtroppo depotenziando, in tal modo, una originale complessità. Non ci si vuole sforzar troppo, e allora il nome straniero fa gioco. L’agenzia lo vende più facilmente, e l’operatore non deve pensare. Siamo pigri: un bel pensiero meridiano è divenuto solo debole, e, anche questo, viene importato.
Usi spesso questa parola: “disinnescato”. Ma cosa intendi precisamente?
Ciò che arriva nelle programmazioni ‘ufficiali’, ciò che viene citato nelle bibliografie dei libri più venduti, quello che riesce a penetrare nelle accademie in saggi adottati per i corsi, o nei convegni ‘accreditati’ è la versione edulcorata, sbiadita, anestetizzata di ciò che le avanguardie producono incessantemente. Quest’ultime non sono affatto scomparse o morte. Esse vivono nell’immaginazione e nella produzione continua di gruppi o singoli artisti che restano creativi, liberi, mobili nelle pieghe del (più) noto. Ciò che arriva alla proposta facile, alle librerie/emporio, nelle stagioni/supermercato, sugli scaffali o impilati all’ingresso degli autogrill è la parte considerata ‘accettabile’ di quella più nascosta prorompente incessante produzione. È accettabile perché un accademico, un personaggio televisivo, un nome già vecchio, ha copiato quel che ha potuto e quel che ha capito, o, cosa ancor più grave, ciò che ha ‘tradotto’ in termini tali da non implicare uno sforzo da parte dei fruitori/acquirenti seriali, facendone il proprio prodotto/plagio. Si tratta di una estremizzazione delle estetiche del plagio che si afferma grazie a uno sconto sui contenuti. Inevitabile se chi lo propone teme l’invenduto: per questo si tratta di un compromesso, di “opere in saldo” che rallentano il progresso delle idee, impediscono una più ampia consapevolezza di massa. Dufatti, quando le idee originarie, le opere complete della loro carica profonda e rivoluzionaria, riescono ad arrivare alle comunità, si ottiene generalmente che il pubblico non esce dalle sale, e, quando la fruizione termina, essa si trasforma in partecipazione, con un senso di trasformazione, di pienezza, di progresso nel cammino verso una consapevolezza delle proprie possibilità di ‘fare’. Questa creatività generalizzata spaventa chi decide e lucra. Perciò costoro favoriscono producono e accreditano, in accademie e stagioni ufficiali, chi ruba lo scarto di bollitura delle idee, chi appunto le ‘disinnesca’. Ciascuno di noi, se proviene dalle avanguardie, può saltuariamente arrivare al noto di una proposta che faccia capolino al di là delle pieghe, oltre l’orlo del crepaccio. Poi, decide se lasciarsi disinnescare, ad ogni istante del suo procedere, accettando di andare in Tv, ma ‘solo’ con un certo brano. O di fare un libro, ma ‘solo’ se mantiene un certo discorso lieto. O di tenere un corso in Conservatorio o all’Università, ma solo se non rivoluziona o dà fastidio a chi opera stabilmente in quelle accademie con fare scialbo e linguaggi precostituiti. Si ‘entra’ soltanto se si accetta il basso profilo. Ma, se lo si accetta una volta, si tradisce la carica eversiva dell’avanguardia, che per definizione è movimento, flusso. Si diventa così ‘organici’ a questa o quella comunità ‘scientifica’, che naturalmente non ha più nulla della vera scienza, anch’essa sempre in movimento, e priva dei connotati del ‘possesso’, il quale inevitabilmente rallenta consapevolezza e progresso dei linguaggi. Naturalmente esistono una o due eccezioni, nel panorama italiano, e confermano la regola…
Certo, ma come ‘misurare’ la carica progressista o meglio incessantemente progressiva dell’avanguardia?
Intanto, comincerei a parlare di ‘avanguardie’, al plurale. Poi, la misura la si astrae dal ‘reale’ merito e assegnando incentivi non tanto con criteri di quantità, cioè non considerando, come ora avviene, il numero di concerti, partecipanti oppure chi abbia il maggior numero di studenti, di laureati o, nelle scuole (che restano le più sane o le meno ammalate), di promossi. Ciò che si dovrebbe guardare e misurare è l’effettività dell’azione, sia essa artistica che didattica. Significa valutare quanto si è arrivati effettivamente a trasformare con efficacia le individualità nei processi di consapevolezza del sé, dell’altro, della relazione con i territori propri e altri. Facilissimo farlo, basterebbe considerare il percorso svolto. Misurare prima e dopo gli interventi, siano essi artistici, culturali, didattici. Basterebbe usare interviste a campione o questionari, purché non anestetizzati anch’essi, e purché non modellizzati su un pensiero unico, o ‘nazionalizzati’. Basterebbe usare criteri compiutamente scientifici, che sono tutt’altro da quelli accademici…
Fammi un esempio: come avviene questo spostamento d’asse nelle proposte accademiche e di facciata?
Un esempio è l’icona-feticcio. Si sceglie un nome noto e integrato, gradito e accattivante. Quel nome sarà il feticcio che genera la strategia d’esclusione. Una specie di paletto, che segna il confine tra chi entra e chi resta fuori. Fungerà da richiamo rassicurante: chi va a vedere un concerto in una rassegna garantita da quel nome, sa già cosa troverà e che confermerà il suo autoriferirsi. Potrà muovere al riconoscimento di repertori e musicisti che già gli sono noti. Rafforzarlo nella sua sicurezza, fungere da specchio per ciò che già è. Un movimento solo apparente. Non sia mai che chi è nel recinto possa scorgere una via di fuga: sarebbe molto destabilizzante, almeno inizialmente. E invece quella via di fuga, quell’eteroriferirsi è proprio ciò che occorrerebbe al respiro dell’arte e alla crescita personale e comunitaria. Soprattutto per svecchiare l’offerta e dare voce ai giovani.
Lavori da sempre con i più giovani. Parlami di loro, e quindi del futuro della musica…
“In arte non esiste progresso”, scrive Man Ray sulla linea Cage-Duchamp. Feci mia questa acquisizione già nel libro su Pietro Grossi, il pioniere della musica elettronica con il quale ebbi la fortuna d’interloquire. Normalmente ed erroneamente si pensa che in arte esista ciò ch’è meglio e ciò ch’è peggio, e che gli artisti possano essere catalogati, classificati, magari privilegiando i ‘migliori’ o i capiscuola (figure che hanno affossato lo spirito più autentico e originario delle accademie). Questa nozione di una ‘graduatoria’ dove prevale il migliore, o dove c’è una classifica… quest’idea per la quale in un concorso si fa a gara per risultare vincente, è del tutto estranea alla mia vicenda umana, al mio percorso e alle mie prassi didattiche. In arte ciascuno è il migliore. Poi, non tutto è arte: lo è solo ciò che ci trasforma, che rinvia ad altro. Se un lavoro resta in un cassetto, o è spocchioso, ridondante, inutile, retorico, ecco che appare come disinnescato: è incapace di rinvio di senso, di senso come direzione che ‘da un punto ci conduce altrove’. Questo è ciò che un giovane deve, a mio avviso, perseguire. Una trasformazione.
Foto di Piero Previti