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de Giovanni, “Dodici rose a Settembre”

  12 Settembre 2019

“Questo libro realizza il mio sogno di stare nello stesso catalogo di Andrea Camilleri”. L’esordio di Maurizio de Giovanni per presentare l’ultimo nato “Dodici rose a Settembre” (Sellerio).

Sceglie il Sannazaro, il teatro di Chiaia, salotto buono della città, per raccontare il degrado dei vicoli. Lo scrittore conferma la formula ormai collaudata ma questa volta è unico interprete dei suoi testi, accompagnato dal sassofono di Marco Zurzolo e dalla chitarra di Carlo Femiani. Ancora una volta la voce, la parola, la storia si prendono tutta la scena.

Dopo Sara, Maurizio de Giovanni si lascia nuovamente sedurre da un personaggio femminile di cui si dichiara follemente innamorato. Gelsomina Settembre, detta Mina, è la procace assistente sociale, in servizio ai Quartieri Spagnoli, dalla vita difficile: una madre inferma e battagliera da accudire e una separazione alle spalle. Ha una vera e propria passione sociale che la porta a occuparsi di emarginati e persone in difficoltà e a risolvere casi senza giustizia nel reticolo dei vicoli, dove la città cartolina cede il passo a un altro universo, che lei stessa sembra aver generato dal suo ventre. “Come un gioco di matrioske di colori e fogge diverse, città che contenevano città che si aprivano ad altre e ad altre ancora”.

Un groviglio di strade, un imbroglio, uno sbaglio. Una ferita sul volto. Vicoli brulicanti di vita e affollati di dolore: vivere qui significa affrontare “una battaglia quotidiana contro un destino che sembra già segnato”. Ma Mina ha deciso da che parte stare. “Gli occhi di Flor e delle mille Flor che aveva incontrato nella sua non lunga carriera, erano la sua condanna a continuare.” Quasi una maledizione – la condanna – trasforma persone comuni in personaggi eroici, che non rivendicano mai il loro eroismo. Vivono, agiscono, e provano a cambiarla questa città. Anche da soli.

Quando il sipario si apre, sotto gli occhi di tutti, si compone una scena essenziale. Bisogna innanzitutto ascoltare. Ben quattro i capitoli, letti tutti d’un fiato, con la musica addomesticata alle esigenze del racconto, che ne segue il ritmo, lo asseconda, si piega alle intenzioni dello scrittore.

La lettura vivace rende appieno lo stile del testo intessuto di battute concitate, paradossali, in una lingua fortemente mimetica del parlato. In sala si ride molto perché questo libro ha una piega diversa. De Giovanni ritorna alla sua originaria vocazione umoristica, mai abbandonata del tutto, ma stemperata da altre tensioni: il dramma, il pathos, il noir.

Vincenza Alfano

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