Letture in Corso: “L’Americano” di Massimiliano Virgilio
19 Luglio 2017
Massimiliano Virgilio, “L’americano”, Rizzoli, Milano, 2017, 342 pagine, 19 euro
“L’americano” segna una tappa fondamentale nella carriera di Massimiliano Virgilio. Non si allude a quel concetto ambiguo di “maturità artistica”, bensì al fatto che il modo di scrivere di questo autore abbia oramai un tratto decisamente riconoscibile nell’affollato panorama editoriale italiano. Virgilio, infatti, con questo romanzo, confermando quanto di buono aveva fatto in precedenza, non lascia più dubbi su quali siano gli elementi che caratterizzano la sua prosa. Una prosa che solo in apparenza può sembrare immediata, ma che, al contrario, nasconde un sapiente lavoro di cesello da cui emergono almeno tre elementi peculiari: periodi non troppo lunghi, ma neanche troppo brevi; la dovizia di particolari storici, soprattutto secondari e poco conosciuti, ma congeniali all’intreccio; improvvise frasi a effetto che chiosano un “sentimento” che in un dato momento si è affacciato nella storia. Per esempio, ne “L’americano”, quando viene descritta la crisi che porterà all’acquisizione da parte del gruppo Imi San Paolo del Banco di Napoli, si fa riferimento al Bar Daniele di via Scarlatti che, privato delle commesse per gli eventi aziendali del Banco, sarà costretto a dichiarare fallimento (cfr. p. 155). Oppure, quando Eduardo, il padre di Marcello, durante una discussione-confessione con il protagonista, sentenzia che “il denaro è la più grande invenzione umana dopo Dio, ma rispetto a lui è più divertente e la puoi toccare” (p. 221).
L’impianto narrativo de “L’americano” si muove su piani sfalsati, mescolando generi letterari e offrendo al lettore differenti temi sui quali riflettere. Il primo, il più eclatante, è quello relativo al delicato passaggio dall’infanzia all’età adulta. L’infanzia non è necessariamente quel periodo dorato in cui tutto diventerà un bel ricordo. L’infanzia può essere, e spesso lo è, una fase di smarrimento, uno smarrimento che colpisce tanto i figli delle famiglie benestanti e stabili, quanto i figli delle famiglie indigenti e sconvolte da situazioni tragiche: “Avevano dimenticato cosa volesse dire sentirsi smarriti, perché questo è l’infanzia – un giardino dove ci si perde e nessuno è in grado di trovarti – e proprio quando ci sei immerso fino al collo, e non sai nemmeno come, ecco che tra i rovi e le sterpaglie ti viene incontro uno sconosciuto; (…) ma tu sei troppo giovane (…) per sapere che non ti scegli un amico proprio come non ti scegli i genitori o la città in cui nascere” (p. 69). Uno smarrimento che marchia a fuoco le esistenze: “Intrappolato come nell’intercapedine del tempo, smarrito nel mondo, perché chi nasce smarrito cresce smarrito. Col tempo si acquisisce un po’ di consapevolezza, a tratti sembra che il vivere si faccia meno faticoso, ma è una posa, un’illusione, perché il destino degli smarriti è sempre in agguato” (p. 308). Il secondo aspetto, più nascosto, ma che poi pian piano s’impone, è il rapporto padre-figlio e, più in generale, tra generazioni diverse. La domanda che Virgilio pone, e si pone, è, che cosa resta di noi in coloro che ci sopravvivono? In questo caso, l’eterogonia dei fini prende il sopravvento, per cui gli insegnamenti di una vita finiscono nel dimenticatoio o peggio sono all’origine di dinamiche allucinanti, mentre un errore all’apparenza insignificante, diventa per qualcuno una lezione di vita imprescindibile.
Un merito de “L’americano”, che non può essere taciuto, è di usare, peraltro benissimo, la città di Napoli come sfondo e non come una delle protagoniste della storia. Gli avvenimenti non sono condizionati dai luoghi in cui sono raccontati, anche se alcuni di questi luoghi, da via Caracciolo al bosco di Capodimonte, sono quelli tipici con cui in altri contesti si abusa per promuovere il controverso effetto cartolina. Qui, invece, i panorami quasi non si vedono, se non per un attimo, distrattamente. Del resto, il romanzo è permeato da una volontà normalizzante, da un implicito invito ad andare avanti – seppur con fatica e tra i numerosi problemi a cui bisogna far fronte – per la propria strada e con le proprie forze, metafora allo stesso tempo di una città (a sua volta metafora di tutte le città) e di un’intera generazione.
>di Roberto Colonna