RUBRICA IL CUOCO GALANTE: La Genovese, mistero e mito
12 Luglio 2018
Ancora oggi è di gran moda presso i ristoranti e le trattorie di Napoli e dintorni e non manca nemmeno nelle cucine degli chefs più ricercati: rivisitata o ipertradizionale, la Genovese vive una nuova giovinezza.
Cipolla di Alife (delicatissima) o di Montoro (consistente e adatta alle lunghissime cotture)? Punta di petto o stinco? Strutto aggiunto o solo olio? I dubbi dell’antica ricetta sono tanti e hanno dato, negli anni, spunti di discussione a generazioni di cuochi.
Il vero dubbio però è il nome. Perché si chiama genovese una pietanza diffusa a Napoli? Le teorie sono tante e tutte variamente fantasiose.
Qualcuno ha parlato di osti genovesi medievali situati nel porto di Napoli, altri di cuochi venuti apposta da Genova o che forse si chiamavano Genovese di cognome o di “contranome”. Negli ultimi decenni l’interesse per la storia della gastronomia ha sviluppato teorie ancora più articolate delle quali si è andato anche a cercare il fondamento storico nei libri o in qualche altra fonte documentale: abbandonata la taverna secentesca, qualcuno ha ipotizzato che il termine non si riferisse affatto a Genova e che la “Genevoise” fosse in realtà riferita a Ginevra, forse in dileggio della scarsa tradizione culinaria della città svizzera, considerata specializzata solo in ottime zuppe di cipolle.
La versione più recente, immediatamente copiata tal quale in centinaia di siti e blogs di cucina, ha posto invece all’attenzione il “Liber de coquina”, ovvero il primo trattato di gastronomia scritto in Europa nel XIII secolo da un servitore di Carlo II d’Angiò: nel libercolo ritrovato alla Bibliotheque National de Paris negli anni ’70 del secolo scorso, viene riportata, tra le altre, la ricetta della “Tria Ianuensis”, una salsa di cipolle soffritte in olio e colorate con spezie da usarsi per condire carni arrosto.
Indubbiamente ha tratto in inganno il titolo: la parola Trja, termine arabo che designava una specie di spaghetti (della cui fabbricazione, guarda caso, Genova era allora la capitale); il punto è che nel Medioevo la pasta, lessata in brodo sgrassato di carne, veniva condita con zucchero e cannella e non con le salse, come avverrà dal XIX secolo in poi.
A chiarirci definitivamente ogni dubbio sull’origine è però lo storico Claudio Benporat che, in un interessantissimo saggio sulla cucina rinascimentale, ci spiega che la definizione “a la genovesa” è da riferirsi ad una serie di ricette del medioevo genovese e dunque non ad una singola salsa. Spulciando, infatti, il “Libro de arte coquinaria” di Maestro Martino da Como troviamo una gustosissima salsa di cipolle, zucca e carne salata condita con “safrano et pipero” (io non l’ho potuta assaggiare perché sono allergico alla zucca, ma la mia amica gourmet Emilia Lombardi l’ha gradita fin troppo!); e poi una torta di spinaci e ancora un pasticcio tutti “a la genovesa”.
La mia modesta opinione è che, come tante ricette dell’epoca, sia nata sulle navi di pirati e corsari, quelli che terrorizzavano il Tirreno fino alla Costa Azzurra e che dovevano dotarsi di grandi scorte di cibo perché sapevano che dopo le razzie nei porti italiani e francesi qualcuno andava ad aspettarli a casa loro per rendere il favore. E così derrate di lunga durata, quali cipolle, carote, zucche e carne salata, erano di gran lunga preferibili alle disgustose gallette portatrici di dissenteria cronica nonché causa di rovinosi ammutinamenti.
Una leggenda accreditata dallo storico del XIX secolo Olindo Guerrini vuole che, dopo una battaglia navale al largo della Corsica, due marinai catturati dai pirati furono ridotti a galeotti e quando furono liberati al largo di Mergellina, dopo due anni di prigionia, si misero a fare i cuochi nelle taverne del porto di Napoli: erano di Genova!
> di Giovanni Serritelli