Monsù: l’evoluzione della cucina francese a Napoli
17 Luglio 2019
Si fa presto, oggi, a parlare di creatività in cucina. Basta guardare indietro nei secoli per capire che i piatti moderni, seppur elaborati e d’effetto, sono solo una pallida velina di quelli preparati nel ‘700 dai Monsù alla corte di Ferdinando I di Borbone, Re delle Due Sicilie, detto anche Re Nasone. Estroversi, supercreativi, fantasiosi, a tratti bizzarri, i Monsù (dal francese “Monsieur”), nome subito sintetizzato dal colorito gergo popolare, non furono solo raffinati cuochi francesi chiamati alla Corte napoletana per compiacere i gusti ricercati della Regina Maria Carolina d’Austria, ma veri professionisti, arte ci della straordinaria rivoluzione gastronomica creativa della cucina francese non solo a Napoli, ma anche a Palermo, che portò, in breve tempo, la cucina borghese popolare ad assimilare le nuove tendenze con elementi della tradizione locale, preservandone, così, l’identità territoriale.
Ecco, allora, che a corte e nelle famiglie aristocratiche i Monsù, attorniati da uno stuolo di aiutanti, iniziarono ad elaborare ricette sempre più complicate e scenografiche, fatte per stupire non solo i palati fini ed esigenti dei nobili, ma anche per offrire a tavola un vero e proprio spettacolo agli ospiti: i delicati sapori francesi transitarono in ricette ricche di profumi e sapori più decisi, creando piatti che consumiamo ancora oggi, come il sartù di riso, il ragù (da ragout), il gattò (da gateau), i crocchè (da croquettes), i supplì, il timballo o timpàno, che al centro nascondeva un mezzo guscio d’uovo con un po’ di alcool cui veniva dato fuoco al momento di servire a tavola, in ricordo del Vesuvio.
Allo stesso periodo è collegata anche l’evoluzione della forchetta. Infatti, per agevolare la presa, re Ferdinando incaricò il suo ciambellano, l’esperto Gennaro Spadaccini, di costruire preparati nel ‘700 dai Monsù alla corte di Ferdinando I una forchetta adatta all’uso. Nacque, così, una forchetta rivoluzionaria, la sola a 4 rebbi, come noi la conosciamo ed usiamo quotidianamente.
In tale evoluzione sembra essere anche intervenuto il riso, arrivato per la prima volta a Napoli dalla Spagna, alla fine del XIV secolo con gli Aragonesi, ma non amato per via del gusto delicato, tant’è che a corte veniva chiamato “sciacquapanza”, cioè poco gustoso e trovò miglior impiego come medicamento nella Scuola di Medicina Salernitana, per malattie intestinali o gastriche.
I Monsù, consapevoli dell’avversione dei napoletani per i sapori troppo delicati, diedero al riso dignità con una sontuosa rielaborazione, facendone uno dei piatti più amati, elaborati e gustosi della cucina napoletana: il Sartù, nome storpiato nel dialetto napoletano del termine “sor tout” (letteralmente “copri tutto”), con riferimento allo speciale “mantello” di pangrattato di copertura.
Tra i dolci, il Babà è originario della Polonia, rielaborato in Francia dalla pasticceria Stohrer di Parigi (esistente ancora oggi) e portato, poi, a Napoli, dai Monsù che aggiunsero la bagna a base di rum. Uno dei più grandi cuochi tra il XVIII e il XIX nelle corti nobiliari di Napoli fu Vincenzo Corrado, capo dei sevizi di bocca per il Principe di Francavilla di Palazzo Cellamare: il suo libro “Il cuoco galante” è il compendio della cucina aristocratica del tempo.
Ancora oggi per “cucina dei monsù” si intendono le raffinate cucine napoletana e palermitana, caratterizzate da grande qualità e fusione mirabile tra piatti della tradizione francese e quelli locali. Sul tema della “Reciproca influenza tra la cucina italiana e la cucina francese”, presso l‘Istituto di Cultura Italiano a Parigi si è svolto il Convegno per il trentennale della fondazione della Delegazione parigina, guidata da Luisa Polito, dell’Accademia italiana della Cucina, fondata nel 1953 da Orio Vergani. Tra i relatori, lo scrittore Corrado Augias, Silvano Serventi, storico della gastronomia, e la delegazione accademica napoletana, presieduta da Vittorio Alongi.
> di Carmen Guerriero