Quando la ricerca vince
20 Luglio 2020
Il professore Paolo Ascierto delinea la situazione della lotta contro il Covid19
La “cura Ascierto” funziona a Napoli, in Italia e in Francia. Testata in Cina su un numero ridotto di pazienti, in Italia è stata messa a punto dal professore Paolo Ascierto, ricercatore del Pascale che, con i colleghi dell’Istituto dei tumori e con gli specialisti del Monaldi, coordinati dall’oncologo Enzo Montesarchio, sperimenta il Tocilizumab. «Non ci interessa avere il primato ma è vero che siamo stati i primi a mettere in piedi una sperimentazione, quella che ci dà il dato con rigore scientifico». Un guizzo di un’equipe di ricercatori. Ma non è un caso.
Cinquantasei anni a novembre, presidente Fondazione Melanoma e direttore dell’Unità di Oncologia Melanoma, Immunoterapia Oncologica e Terapie Innovative dell’Istituto tumori Pascale di Napoli, ha utilizzato il farmaco Tocilizumab nel trattamento dei primi pazienti in Italia con Covid19 insieme ai colleghi del Cotugno, centro di riferimento regionale per l’emergenza coronavirus e specializzato in malattie infettive.
Il New York Times, uno dei più importanti giornali del mondo, punta i riflettori sulla cura sperimentata dal professore. Lui, però, non si lascia prendere dalla notorietà e, in silenzio, prosegue a lavorare e a dribblare le polemiche e continua a incassare riconoscimenti da parte del mondo accademico e non solo.
Fiore all’occhiello della sanità meridionale, del cosiddetto “Modello Campano” vincente per l’ottimo lavoro di squadra che ha portato avanti rispettando le regole nazionali e apportando contributi dal punto di vista tecnico e specialistico, così come il “Modello Cotugno”, ospedale di eccellenza con zero contagi, apprezzato e indicato dalla stampa internazionale come modello da seguire.
E benché l’Italia stia iniziando a riprendere ossigeno piano piano, il Coronavirus non è stato ancora sconfitto. «Bisogna mantenere la guardia alta fino a quando non sarà trovato il vaccino», sottolinea il professore nella nostra conversazione.
Oncologo e ricercatore, come si è trovato in prima fila nella medicina delle catastrofi, lontano dal mondo oncologico? E perché ha pensato di utilizzare il Tocilizumab?
«L’idea del Tocilizumab nasce dagli studi che stiamo portando avanti sugli anticorpi bi-specifici e sulle CAR-T, attualmente utilizzati nella cura di alcune neoplasie ematologiche. Uno degli effetti collaterali che più frequentemente si presenta con questi farmaci è quella che generalmente chiamiamo “sindrome da rilascio di citochine”, in cui si verifica un importante rilascio di molecole che possono determinare danni all’organismo, come ad esempio le polmoniti immuno correlate. Queste tossicità vengono normalmente gestite con il Tocilizumab, farmaco ormai incluso nella nostra pratica clinica».
Come agisce il farmaco?
«Questo farmaco agisce bloccando la cascata citochinica che si sviluppa in seguito alla somministrazione delle CAR-T, in particolare blocca l’interleuchina 6, responsabile in parte dei danni creati all’organismo. Similmente nelle polmoniti da Covid19, si verifica un rilascio di citochine, in particolare dell’IL-6, che abbiamo prima immaginato, poi dimostrato, si potesse frenare proprio con il Tocilizumab. I cinesi prima di noi avevano avuto la stessa idea (avevano infatti trattato 21 pazienti con polmonite da Covid19, 20 dei quali avevano ottenuto una buona risposta), confortandoci quindi sulla potenziale efficacia di questo farmaco».
A Napoli però non avete utilizzato solo il Toce. Quali dati sono emersi dall’uso del Sarilumab?
«Si, abbiamo sperimentato un farmaco che presenta lo stesso meccanismo d’azione del Tocilizumab, ma che a differenza di questo, viene somministrato sottocute, il Sarilumab, somministrato alla dose di 400mg. Nei confronti di questo farmaco abbiamo avuto un’esperienza su un piccolo gruppo di pazienti (ma non nell’ambito di uno studio clinico). Attendiamo i risultati dello studio di fase III in corso a livello internazionale per trarre le dovute conclusioni».
L’emergenza ha messo in luce le carenze frutto anche dei tagli. Quanto ha contato nel caso italiano la condizione della sanità?
«I tagli alla sanità sia a livello ospedaliero sia sul territorio sono stati effettuati nell’arco di diversi anni e sicuramente hanno influito. Basti pensare alla Germania dove il tasso grezzo di letalità è stato decisamente inferiore a quello italiano. Probabilmente le risorse sul territorio lì sono state fondamentali».
Sui tamponi però siamo ancora indietro così come siamo indietro anche per lo screening di massa. In Italia ci sono le condizioni per fare i tamponi a tutta la popolazione?
«Purtroppo pensare di fare i tamponi a tutta la popolazione italiana non è molto realistico, anche perché l’eventuale negatività non escluderebbe un contagio nei giorni successivi e quindi ci sarebbe la necessità di ripeterlo almeno ogni 7 giorni. Più realistico sembra invece la possibilità di effettuare, attraverso prelievo di sangue capillare o venoso, il test per gli anticorpi (IgG e IgM anti Covid), che permetterebbe di capire il reale numero della popolazione immunizzata».
Si può dire che la Campania sia uscita dall’emergenza e quali sono gli errori da non commettere per non vanificare gli sforzi fatti e i risultati fin qui raggiunti? Quanto è alto il rischio di una recrudescenza dei contagi?
«Attualmente i numeri di casi in Campania si contano sulle dita delle mani, e questo ha portato a tirare almeno un piccolo sospiro di sollievo. Tuttavia, questi ottimi risultati, non devono farci assolutamente abbassare la guardia ma anzi, ci impongono di porre ancora più attenzione in quelle che sono le ormai conosciute misure di prevenzioni adottate».
Dal punto di vista del contagio l’Africa è partita molto lentamente. Si può ipotizzare che in paesi dove il caldo è eccessivo, il virus è meno contagioso?
«Sulla questione purtroppo ci sono dati discordanti. Ci sono alcuni studi che affermano che è improbabile che il caldo possa avere un importante ruolo nel limitare la diffusione del virus, inoltre la veloce diffusione in Brasile, Australia e altre nazioni tropicali indicano che le calde temperature arginano davvero poco il diffondersi della pandemia. Altri studi invece affermano che il virus si sviluppi in maniera più rapida a temperature più basse».
La comunità scientifica in questi mesi ha mostrato molte voci aprendo un confronto che spesso disorientava i cittadini …
«Purtroppo non è sempre facile dare informazioni corrette su ciò che non si conosce, c’è bisogno di tempo, di maturare un’esperienza e di conoscere in maniera più approfondita il nemico che ci troviamo a combattere. Tutte le informazioni date sono state spesso frutto di esperienze passate, con altri virus, nei confronti dei quali si creavano similitudini. Ognuno, nella comunità scientifica, a modo suo ha cercato di fare la sua parte, aiutando sicuramente a superare questa importante fase I».
Quando pensa che potremo avere il vaccino? Al momento quali sono gli studi più validi?
«Purtroppo non essendo un virus già conosciuto, i tempi per la scoperta di un vaccino realmente efficace non sono così brevi come avremmo sperato. Sono in corso molti studi sia in fase preclinica, che in fase clinica; anche noi a breve inizieremo uno studio clinico per valutare l’efficacia di un vaccino, ma credo che dovremmo attendere almeno un anno per avere i primi risultati. Prima di allora, ovvero quando potremo in tal modo fare una immunizzazione di massa, sarà fondamentale rispettare tutte le norme di prevenzione per ridurre i livelli di infezione».
E il trattamento con il plasma?
«Il plasma ha un forte razionale, è stato già utilizzato in passato in varie malattie, come durante la pandemia di SARS ed Ebola, ed è attualmente oggetto di studi in vari paesi del mondo, Italia compresa. Tuttavia non è un metodo consolidato scientificamente, e non ci sono dati sulla sua reale efficacia e sicurezza. Questa terapia prevede il prelievo di plasma da persone guarite da Covid 19 e la sua somministrazione in pazienti affetti, in maniera da trasferire gli anticorpi e stimolare la risposta immunitaria. Attendiamo i dati di una sperimentazione clinica prima di poter dire con certezza che sia efficace».
Qualche esperto ha affermato che per questo coronavirus è sufficiente un farmaco antivirale, lei cosa ne pensa?
«Come è accaduto per l’HIV e l’epatite C, avere degli antivirali efficaci potrebbe cambiare la storia della malattia. Purtroppo al momento non ce l’abbiamo. Speriamo che la ricerca lo trovi al più presto».
Dopo questa emergenza, secondo lei, cosa sarà importante potenziare nel sistema sanitario?
«Spero si capisca finalmente che impegnare i fondi sulla ricerca e sul sistema sanitario è il modo migliore per superare questi problemi, nel momento in cui si presentano. Potenziare le strutture, aumentare il numero dei medici, finanziare la ricerca, sono i modi migliori per limitare, almeno in parte, i danni».
> di Daniela Rocca