Palazzo d’Avalos a Procida: da gioiello borbonico a cittadella dell’arte
28 Novembre 2020
Quale sarà la futura storia di Palazzo d’Avalos per Procida? Ridursi a un rudere che nel tempo sarà consumato dalla potente natura o rinascere e partecipare a un processo rigeneratore nel segno della salvaguardia della sua cultura e di un’occupazione di qualità?
A picco sul mare del canale di Procida si erge, imponente e austero, il Real Palazzo d’Avalos, luogo sconosciuto ai più ma intriso di storia e di fascino. L’edificio fu fatto costruire nel Cinquecento dalla famiglia d’Avalos su progetto degli architetti Cavagna e Tortelli. Fu il Cardinale Innico d’Avalos a volerne fortemente la costruzione. Tale intento rivestì per i procidani un’enorme importanza per il fatto che, contestualmente, fu realizzato anche l’attuale accesso a Terra Murata, il cui borgo prima di allora era raggiungibile solo via mare. Fu così che gli isolani diedero vita al famosissimo borgo marinaro della Corricella.
Palazzo d’Avalos fu dunque dimora gentilizia, poi, sulla fine del Settecento, divenne un possedimento borbonico. L’edificio cambiò spesso le sue vesti passando da residenza estiva e riserva di caccia dei Borbone a scuola militare e infine a carcere del Regno. Ferdinando II di Borbone volle infatti convertire l’edificio in una colonia penale dove i detenuti, in gran parte cospiratori, furono costretti ai lavori forzati fino alla morte.
Un adattamento in netto contrasto con lo splendido mare sottostante, o forse una pena ancor più dura per chi ogni giorno era costretto a guardare tanta bellezza attraverso le inferriate. Sin da subito il regime di prigionia fu orientato al duro lavoro. Nel palazzo furono impiantate una teleria per la canapa, una falegnameria ed una legatoria supervisionate dai gesuiti, affinché gli ergastolani potessero redimersi attraverso lo sfinimento fisico. Nella tenuta circostante si allevavano animali e si coltivava la terra i cui prodotti, una volta a settimana, venivanovenduti in una sorta di mercato che si teneva nella “spianata” del carcere. Inoltre, i filati prodotti nell’opificio venivano acquistati a prezzi accessibili dalle donne procidane in età da marito, che venivano a trovarsi con un corredo frutto della sofferenza dei carcerati.
La casa di reclusione rimase operativa fino al 1988, anno in cui chiuse i battenti per via delle condizioni disumane in cui versavano i detenuti. Quello che ormai era solo lo spettro della meravigliosa tenuta rinascimentale rimase abbandonato in balìa del degrado fino all’acquisito dell’intero complesso da parte del comune, avvenuto nel 2013. Fatti gli essenziali lavori di riqualificazione e di messa in sicurezza,il palazzo d’Avalos è stato riaperto alle visite guidate per turisti e residenti.
Noi di Dodici Magazine abbiamo chiesto a Rosalba Iodice, architetto che ha redatto il Programma di Valorizzazione per il trasferimento del complesso al Comune di Procida, quale potrebbe essere in un prossimo futuro la nuova vita del palazzo: «La valorizzazione del complesso Monumentale del Palazzo d’Avalos dovrà contenere funzioni compatibili e sostenibili rivolte alla crescita culturale, sociale ed economica dell’isola e, innanzitutto, alla più appropriata conservazione e alla tutela del complesso in una forma che contemperi e rielabori la sua memoria. La valorizzazione dell’ex carcere potrà essere costruita intorno a delle attività culturali, gestite anche da istituzioni private: alta formazione nel campo ambientale e turistico, corsi e master universitari internazionali, atelier per artisti che saranno motore per l’attrazione turistica destagionalizzata. Palazzo d’Avalos quindi come un motore intelligente, contenitore di relazioni, per investire sul talento dei giovani e la formazione di qualità». Intanto nelle stanze dell’ex carcere il tempo sembra essersi fermato ed è ancora possibile intravedere ciò che resta dei soffitti rinascimentali. Tutto è stato lasciato come al momento della chiusura: brande con coperte di tessuto grezzo, scarpe e vestiti impolverati appartenuti ai detenuti, matasse di canapa ed arrugginite macchine per cucirenarrano la storia di un luogo tanto suggestivo quanto angosciante. Tuttavia, tra registri impolverati che avrebbero mille storie da raccontare, nell’ultima stanza di quello che fu il piano nobile lo sguardo si apre su ciò che mai ti aspetteresti, quantomeno non lì: “7.0”, l’installazione di arte contemporanea del 2015 di Alfredo Pirri, così chiamata perché inaugurata alle 7 del mattino. Due lastre di vetro con al centro una moltitudine di piume d’uccello che al primo raggio di sole, riflettendo sul vetro, iniziano a brillare. Un uccello notturno o forse un angelo intrappolato per sempre, come racconta l’autore, in «una soglia di cristallo, dove delle piume indicano allo sguardo il punto di fuga, quasi una messa a fuoco irreale e leggerissima tra due storie, quella del luogo di pena e quella nobile e raffinata e il loro fuori. Un volo che condurrà ogni fruitore singolarmente verso il proprio altrove».
di Aurora Rennella