In viaggio per conto di Dio
30 Marzo 2021
A settecento anni dalla morte di Dante Alighieri, lo storico Alessandro Barbero svela aspetti inediti della vita del poeta. Ma è nelle sue opere il vero mistero di un genio che sfida i secoli
È il viaggiatore in missione per conto di Dio, ma molto prima dei Blues Brothers. Si innamora di una ragazza incontrata solo due volte e ne ricava un impressionante cattedrale letteraria dal nome: Divina Commedia. Vive vent’anni in esilio ma il suo spirito è inabbattibile e le sue muse particolarmente loquaci: diventa una superstar della letteratura.
A settecento anni dalla sua morte, nella selva oscura in cui ci ha gettati la pandemia, torniamo a ricordare il sommo poeta Dante Alighieri, che consegnò bellezza e gloria eterne alla lingua italiana. È ai suoi versi che molti stranieri consacrano lo studio della nostra musicale ma non semplicissima lingua, e nella sua opera principale ritrovano un’Italia straordinariamente divisa e litigiosa, eternamente lacerata tra poteri, fazioni, campanili. Un’Italia immutabile.
Lo storico Alessandro Barbero, apre il suo Dante -uscito nell’autunno del 2020, ma destinato a essere ricordato come il libro dell’anno- con un ritratto assolutamente inedito del poeta. È l’11 giugno 1289: le truppe fiorentine muovono verso lo scontro con gli aretini in quella che sarà ricordata come la battaglia di Campaldino. Dante ha 24 anni ed è in prima fila. Si getta nella mischia, ma all’ infuriare degli scontri, per sua stessa ammissione, viene assalito dalla paura e fugge. L’uomo che undici anni dopo si sarebbe distinto tra le fila dei guelfi Bianchi nel difendere l’autonomia di Firenze dall’ingerenza degli Angioini e del pontefice -quest’ultimo sarà sostenuto invece dai guelfi Neri per interessi mercantili-, e che non avrebbe esitato a deliberare la condanna al confino dell’amico Guido Cavalcanti, si tira indietro dalla battaglia di Campaldino con un atteggiamento che ai nostri occhi appare tutt’altro che coraggioso. Su tale giudizio però -avverte Barbero- pesa la nostra costruzione, assolutamente moderna, del cavaliere senza macchia e senza paura.
Nel Medioevo, epoca in cui guerre e scontri erano frequenti, contavano destrezza ed esperienza sul campo, più che la spavalda avventatezza dei coraggiosi a ogni costo. Anche la provenienza sociale del poeta, appartenente all’élite fiorentina, secondo gli standard moderni ci farebbe storcere il naso: i suoi antenati si erano arricchiti prestando denaro. Eppure all’epoca poteva dirsi usuraio solo chi si dedicava esclusivamente a tale attività: muovere i capitali era anzi raccomandabile e degno, in una città, Firenze, che Barbero descrive come una città-banca, dalla potenza economico-finanziaria paragonabile a New York. Escluso da ogni carica e condannato al confino per due anni come falsario e barattiere nel 1302, dopo che nel 1301 a Firenze le truppe angioine di Carlo di Valois avevano destituito il governo dei Bianchi e richiamato i Neri dall’esilio, Dante non si presenta a pagare la sua ammenda nei tre giorni stabiliti e viene condannato a morte in contumacia.
L’Inferno, la selva oscura incontrata «nel mezzo del cammin di nostra vita» ha inizio in quei furori politici e nelle oscure macchinazioni per il potere e -di là da ogni ricostruzione storica- restano i suoi versi a «far tremar le vene e i polsi». L’eccezionale avventura umana cadenzata in rispondenze tra microcosmo del verso e macrocosmo filosofico che costituisce la Commedia (poi Divina, con Boccaccio), il portato esistenziale di un’opera che irradia grazia, resta motivazione di gratitudine eterna. La navicella di un ingegno che come in un mandala ci porta per mano nel viaggio più incredibile al centro della coscienza umana e «a riveder le stelle», è la stessa che ci conduce in una giornata chiara su un vascello incantato e dolce di nostalgia «Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io». La risolutezza nel definire i codici della lingua del cuore e l’autorevolezza del latino nel De vulgari eloquentia e poi la dichiarazione, definitiva nel Convivio, nel quale elenca pazientemente tutti i motivi per cui ama la lingua materna, il volgare, tanto da concludere: «che non solamente amore, ma perfettissimo amore sia quello ch’io a lui debbo avere e ho». E se anche noi amiamo questa lingua, e se anche semplicemente amiamo, questo amore lo dobbiamo in parte a Dante, che ci ha dato le parole per pensarlo.
di Simona Ciniglio